C' era una volta un eroe triste. Un generale senza macchia e senza paura, che liberò un intero continente dal dominio dello straniero. Si chiamava Simón José Antonio de la Santísima Trinidad Bolívar y Palacios de Aguirre, Ponte-Andrade y Blanco, per tutti, Simón Bolívar. Cacciò gli spagnoli dal Sud America, ma finì la sua vita circondato dall'odio e dalla solitudine, abbandonato da tutti quelli che aveva aiutato. Capita a molti. Dopo la sua morte gli è stata restituita la gloria: il Paese con la «naturaleza» più bella del continente, la Bolivia, ha preso il suo nome. Dai picchi andini alla foresta amazzonica, dalle lagune colorate ai geiser lavici, dai deserti di sale alle dune sabbiose, la nazione dell'eroe eponimo è uno spettacolo senza fine. Anche gli spagnoli cacciati dal Generale hanno lasciato «qualcosa» da vedere: le città coloniali, le chiese e le missioni. Il centro più carico di storia è Potosì. Pochi lo sanno, ma questo è il nome della città che per quasi un secolo è stata la più ricca e la più popolata del mondo e il luogo dove si è consumato uno dei più grandi crimini della storia. Tutto è cominciato da un monte, il Cerro Rico. Era il 1546 e gli spagnoli scoprirono che quel gigante roccioso era pieno d'argento. Subito fondarono sulle sue pendici, a oltre quattromila metri di altezza, una città. Potosì. Obbligarono gli indios a scavare a mani e piedi nudi nel fondo delle miniere. E fu subito genocidio. Gli indigeni lavoravano a cinque/seimila metri sul livello del mare, con temperature glaciali, in mezzo agli effluvi di mercurio. Resistevano qualche tempo masticando foglie di coca e poi morivano. A decine di migliaia. Provarono a sostituirli con schiavi negri, ma questi non facevano neppure in tempo ad arrivare alla bocca delle gallerie che il freddo li aveva già uccisi. Mentre i minatori crepavano di stenti, gli spagnoli costruivano attorno al Cerro Rico un città di sogno, con palazzi in stile barocco-meticcio, chiese monumentali, conventi pieni d'oro e gemme preziose. Carovane cariche d'argento partivano, via Lima, per Cartagena de Indias, dove le aspettavano i galeoni del Re Cattolico. La ricchezza che sfuggiva ai corsari inglesi arrivava fino alla corte spagnola spargendo opulenza in giro per l'Europa. A Madrid e a Siviglia, per significare che una cosa era altro pregio si diceva «vale un Potosì». E si dice ancora oggi. Tutti i sudditi di sua maestà, compreso Miguel Cervantes Saavedra, che lo lasciò scritto nel Don Chisciotte, sognavano di ricongiungersi a Francisco de Toledo, il governatore della città più ricca del globo. Lo fecero in duecentomila. Oggi di quel passato opulento resta un luogo impastato di miseria e nobiltà. La miseria è quella degli abitanti che cercano di strappare dalle miniere del Cerro un metallo che non c'è più. Quella delle migliaia di automobili vecchie e scassate, che girano per le stradine coloniali come formiche impazzite lanciando miasmi grigi dalle marmitte arrugginite (il tasso di inquinamento è insopportabile e, unito alla rarefazione dell'ossigeno causata dall'altitudine, rende Potosì un luogo per turisti vigorosi). La nobiltà è quella dei marmi color panna, delle pietre scolpite che decorano le chiese, delle architetture barocche che ingentiliscono le strade. Il celebre barocco-meticcio, dove accanto ai simboli della scultura occidentale trionfa l'iconografia india. Frutta tropicale, animali andini, fiori sgargianti, divinità locali travestite da santi cristiani si affacciano tra gli intarsi stile vecchia Europa. La Casa della Moneda, il Convento di San Francesco, il Monastero di Santa Teresa profumano di questa dualità che li rende irripetibili. Incastonati in cieli azzurri come la carta da zucchero, sono la ricompensa per chi ha saputo resistere ai disturbi dell'altura e alle punture dell'inquinamento. L'incanto è tale da fare dimenticare, per un attimo, che tanta bellezza, tanto sfarzo, sono i figli della sofferenza e del dolore di centinaia di migliai di uomini. Minatori indios e schiavi negri. Se Potosì è aspra e frenetica, l'antica capitale della Bolivia (per gli spagnoli Alto Perù), Sucre, è dolce e tranquilla. Si trova a soli (!) 2790 metri sul livello del mare e gode di un clima mite. I grandi ricconi di Potosì, venivano a stabilirsi qui per godersi nell'agio i frutti della loro sfacciata ricchezza. Sucre è bianca, rotonda, lenta. La città colta del Paese. La città scelta dai gesuiti per costruire la più importante università delle Americhe. La città dove è nata la costituzione e dove è stata proclamata l'Indipendenza. La città della Recoleta, il grande complesso conventuale dei francescani che si affaccia sulle Ande come un balcone sospeso nel vuoto. La città che prende il nome da José Antonio de Sucre, uno dei pochi generali indipendentisti che non ripudiarono Simon Bolivar. Una città di zucchero filato. La vera anima della Bolivia, però, è (nostra Signora di) La Paz, la capitale più alta del mondo: 3640 metri sul livello del mare. Atterrare all'aeroporto di «El Alto» è da brividi. La città è circondata da vette che superano i seimila metri; la più alta l'Illimani, che gli indigeni chiamano «El abuelo de poncho blanco» (il nonno col poncho bianco): sembra un cono gelato alla crema. L'aereo si infila tra le cime mentre i tetti metallici della città rilanciano verso l'alto una luce stordente. Le case della periferia si aggrappano ai pendii come gli alpinisti alle rocce. Macchine scassate inondano le strade immerse nel loro fumo nero. Le donne indie dominano i marciapiedi coi mantelli colorati e le bombette nere. Tutti vestono abiti andini di tinte sgargianti. I «bazar» brulicano di umanità. Verdure gigantesche e frutti variopinti spuntano dai banchi del «mercato delle Streghe» insieme alle mummie dei più bizzarri animali e agli amuleti contro il malocchio. Tutte le cento razze e tribù del Paese si mescolano qui come i metalli in un crogiolo. Il clima è festoso a dispetto della povertà dilagante. In qualsiasi punto di La Paz hai sempre l'impressione che le Ande stiano per crollarti sulla testa. Ti sembra di essere su un giostra che gira senza mai fermarsi. In un luna park. Solo il cielo se ne sta immobile. Una coperta cobalto a coprire la cordigliera. (di Luigi Alfieri, da Gazzetta di Parma del 19 dicembre 2012) | NOTIZIE UTILI La Bolivia si trova in Sud America: racchiusa tra Argentina, Cile, Brasile, Perù e Paraguay non ha sbocchi sul mare. E' grande tre volte l'Italia e ha solo 6 milioni di abitanti. Un terzo del suo territorio si trova sull'altipiano andino a quote proibitive per gli europei. Spesso supera i quattromila metri. Questa vasta area, spesso ignorata dal turismo internazionale, racchiude alcuni dei più grandi tesori naturalistici del pianeta. Ospita uno dei più alti deserti del mondo, il Salar de Uyuni (3650 metri s.l.m.), la Cordigliera delle Ande, il lago Titicaca, numerosi vulcani, attivi e spenti, geiser, e, soprattutto, le lagune. Per visitare la Bolivia bisogna tenere conto che si tratta di un paese dotato di favolose ricchezze naturali, ma ancora molto povero. Con poche strade e con un corredo di alberghi e strutture recettive piuttosto scarso. Se non si è viaggiatori esperti, è consigliabile evitare il turismo fai-da-te. Tra i tour operator italiani che hanno esperienza nel paese si segnala «Tour 2000» (www.tour2000.it, telefono 011-5172748 o 071-2803752. Digitare «Tour2000 Bolivia» su Google). Accanto alle bellezze naturali, la Bolivia offre il suo vasto patrimonio di città coloniali tra cui spiccano Potosì, La Paz e Sucre e i viaggi organizzati contemplano anche un tuffo nel passato «spagnolo» del Paese. L'altitudine è uno dei problemi che possono incontrare i viaggiatori nel paese sudamericano. Sull'altipiano l'aria è rarefatta e l'ossigeno scarso, quindi è sconsigliabile la permanenza a chi accusa problemi respiratori. |
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Settembre, in Marocco, è il mese più dolce. Le torride temperature di agosto si ingentiliscono, l'aria si fa lieve e profumata. Laggiù, in fondo in fondo, nel verde delle oasi del Sud, cominciano a maturare i primi datteri. I colori sono tenui e delicati, il cielo trasparente e leggero. È il momento migliore per infilarsi nell'aereo e puntare su Marrakech. Un nome magico, un luogo magico. Un nome che come Timbuctu o Samarcanda, Damasco o Singapore, evoca scenari incantati, atmosfere mitiche; e nella città imperiale si vive tra mito e incanto. Tutte le emozioni sono filtrate dal colore arancione delle case, dal profumo soave e penetrante della menta, da quello decadente delle rose. Le cicogne volano alte nel cielo. Gli incantatori di serpenti suonano le loro nenie nello slargo della Djemaa el-Fna. Gli olivi disegnati sul tappeto verde dei giardini, frusciano leggeri, mossi da un vento tiepido e sinuoso. I sapienti arabaschi della Koutoubia e della medersa di Ali ben Youssef si offrono agli occhi del viaggiatore molli e intriganti. Nel Souq, voci, colori e odori salgono inquietanti mescolandosi al calore dell'asfalto. Il lezzo acre del cuoio, i rossi e i gialli dei tessuti, il richiamo malizioso dei mercanti si perdono nella polvere e nel vapore. Il sole, che in estate taglia l'aria come una lama d'acciaio, ora arriva soffuso e delicato.
Il viaggio nella dolcezza decadente del Sud marocchino è solo all'inizio. Le Land Cruiser, come cammelli d'acciaio, lasciano l'afrore della città e puntano a meridione scavalcando le vette dell'Atlante. Qui il verde dei boschi è temprato dal bianco immacolato delle nevi. L'aria è frizzante. Nei luoghi di posta, le strette tazze da tè fanno salire l'afrore della menta, il vapore si materializza in una nuvoletta profumata. Lentamente, le vette si arrotondano, le montagne si addolciscono, le strette gole montane si aprono nella larga valle del Dadès. Ed ecco l'oasi di Skoura; ancora un luogo magico. Dove il tempo si è fermato. Niente linee elettriche, niente automobili, niente televisione. Il cielo è una grande tavola di lapislazzulo, le stelle brillano come diamanti, e solo il raglio di un asino rompe il silenzio della notte. Si dorme sotto un tetto sostenuto dal bambù, il profumo della paglia mescolata alle mura di fango riempie il buio più profondo. Al risveglio, i colori sono il verde delle palme e il rosa tenue della sabbia. Il viaggio ricomincia. Il mattino si colora di ocra. Ocra sono le rocce, ocra la terra, ocra Kasbah e Ksar che corrono lungo la strada per Ourarzazate. I metafisici castelli di fango, come rapiti dai quadri di Salvador Dalì, accompagnano, stanchi e sbrecciati, i viaggiatori diretti verso i bordi del Sahara infuocato. Qui, dove comincia l'immensa distesa di sabbia, le mani sapienti dei capi delle tribù locali hanno costruito un gioiello talmente ben cesellato e ricco di atmosfere da essere stato scelto da decine di registi come scenario dei loro film. Qui Bernardo Bertolucci è sceso per girare una larga fetta de «Il tè nel deserto», un canto alla bellezza del Marocco. Il grande spettacolo dell'erg comincia pochi chilometri più avanti, tra le duna di Marzuqa. Il sole e la sabbia, attori insuperabili, recitano ogni giorno la stessa parte in un film che si ripete da secoli. Un film fatto di colori e di ombre, di colpi di luce penetranti e di tenui irradiazioni. L'alba arriva gialla e argentata: le dune proiettano sagome nere e lunghe, che si accorciano durante la mattinata. A mezzogiorno scompaiono e tutto diventa metallico, accecante. Nel pomeriggio la sabbia ritorna gialla, poi rosa, e quando il sole comincia a tramontare, mentre le ombre si allungano di nuovo spaccando le dune a metà, eccola per incanto farsi arancione. Pochi attimi. Il sole viene inghiottito dal Sahara sterminato. Tutto diventa blù. Gli arabeschi del cielo eguagliano in bellezza quelli della Koutoubia. Silenzio tutto intorno. Dal deserto arriva un soffio tiepido. È il momento di appoggiare la schiena sulla sabbia ancora calda e lasciare correre gli occhi lungo la via lattea. Da sabbia a sabbia. Dal deserto a Essaouira. Ecco le spiagge lunghe e strette dell'oceano Atlantico. Battute da un vento freddo e impietoso che scaglia le vele dei surfisti verso l'orizzonte lontano. Un paradiso per gli amanti della tavola. Un inferno per i nuotatori. Ancora un paradiso per chi adora i colori puri, l'aria tersa, la musica conturbante che nasce dalla fusione delle nenie arabe e delle percussioni dell'Africa più profonda. Si chiama Gnawa, questa inconsueta mescolanza di suoni, e parla di spiriti, di mondi invisibili. Gnawa è l'arte dei guaritori negri arrivati in Marocco come schiavi in epoche lontane. Gnawa è un modo di curare il corpo e l'anima che passa attraverso la magia e le note. Gnawa è un ritmo ossessivo e martellante. Gnawa è qualcosa che non sta mai fermo, che si trasforma. Ai primi semplici suoni sciamanici si sono aggiunte contaminazioni arabe e orientali. E poi sono arrivati il rock, il pop e il jazz. Tutti hanno portato qualcosa di nuovo. E' nato un genere: il Gnawa profano, commerciale, cui ogni anno, in giugno, è dedicato un festival annuale, che richiama a Essaouira i grandi dello star system mondiale. Un evento. Il più grande evento marocchino, una manifestazione che attira migliaia di ragazzi di ogni paese, per ballare, cantare, sballare al ritmo dei tamburi. Parallelo al genere commerciale, sopravvive il filone sacro. Quello in cui un attempato Maallem (il maestro), spesso sotto l'influsso di allucinogeni, suona gli stessi motivi che suonavano gli schiavi negri, senza variazioni e contaminazioni, e, accompagnato da gruppi di tamburi scatenati in ritmi ossessivi, presiede le cerimonie di esorcismo e possessione. Sudando, saltando, contorcendosi, vibrando colpi sulle pelli tirate degli strumenti musicali, guarisce il corpo e l'anima di chi soffre. Di chi gli crede. Ma la bellezza di Essaouira è nei suoi due colori: il bianco e l'azzurro. Tutte le mura sono dipinte intingendo il pennello nei cieli del Sahara e nelle linde spiagge oceaniche. E' una città unica, tersa e trasparente, costruita secondo le rigide geometrie urbanistiche dell'architetto francese Théodore Cornut, che, nel 1765, il sultano Sidi Mohammed ben Alla ha voluto alla sua corte per portare qualcosa di nuovo nello stagnante ambiente indigeno. Ne è nata una città luminosa, originale, non africana, non europea, dotata di una sua anima forte, capace di calamitare nel Sud del Marocco folle di artisti, designer, grandi sarti, musicisti, intellettuali di ogni genere, che hanno fatto della città azzurra la loro casa. Così come tutto il sud del Marocco in settembre è la casa di chi ama il profumo della menta e delle rose, il colore arancione di Marrakech, l'ocra delle rocce, il rosa della sabbia, il verde delle oasi, il giallo e il rosso dei suoq, il volo delle cicogne, il vento tiepido che arriva dal deserto.
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Luigi AlfieriGiornalista. Scrittore. Giramondo. Categories
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November 2013
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