Il viaggio nella dolcezza decadente del Sud marocchino è solo all'inizio. Le Land Cruiser, come cammelli d'acciaio, lasciano l'afrore della città e puntano a meridione scavalcando le vette dell'Atlante. Qui il verde dei boschi è temprato dal bianco immacolato delle nevi. L'aria è frizzante. Nei luoghi di posta, le strette tazze da tè fanno salire l'afrore della menta, il vapore si materializza in una nuvoletta profumata. Lentamente, le vette si arrotondano, le montagne si addolciscono, le strette gole montane si aprono nella larga valle del Dadès. Ed ecco l'oasi di Skoura; ancora un luogo magico. Dove il tempo si è fermato. Niente linee elettriche, niente automobili, niente televisione. Il cielo è una grande tavola di lapislazzulo, le stelle brillano come diamanti, e solo il raglio di un asino rompe il silenzio della notte. Si dorme sotto un tetto sostenuto dal bambù, il profumo della paglia mescolata alle mura di fango riempie il buio più profondo. Al risveglio, i colori sono il verde delle palme e il rosa tenue della sabbia.
Il viaggio ricomincia. Il mattino si colora di ocra. Ocra sono le rocce, ocra la terra, ocra Kasbah e Ksar che corrono lungo la strada per Ourarzazate. I metafisici castelli di fango, come rapiti dai quadri di Salvador Dalì, accompagnano, stanchi e sbrecciati, i viaggiatori diretti verso i bordi del Sahara infuocato. Qui, dove comincia l'immensa distesa di sabbia, le mani sapienti dei capi delle tribù locali hanno costruito un gioiello talmente ben cesellato e ricco di atmosfere da essere stato scelto da decine di registi come scenario dei loro film. Qui Bernardo Bertolucci è sceso per girare una larga fetta de «Il tè nel deserto», un canto alla bellezza del Marocco.
Il grande spettacolo dell'erg comincia pochi chilometri più avanti, tra le duna di Marzuqa. Il sole e la sabbia, attori insuperabili, recitano ogni giorno la stessa parte in un film che si ripete da secoli. Un film fatto di colori e di ombre, di colpi di luce penetranti e di tenui irradiazioni. L'alba arriva gialla e argentata: le dune proiettano sagome nere e lunghe, che si accorciano durante la mattinata. A mezzogiorno scompaiono e tutto diventa metallico, accecante.
Nel pomeriggio la sabbia ritorna gialla, poi rosa, e quando il sole comincia a tramontare, mentre le ombre si allungano di nuovo spaccando le dune a metà, eccola per incanto farsi arancione. Pochi attimi. Il sole viene inghiottito dal Sahara sterminato. Tutto diventa blù. Gli arabeschi del cielo eguagliano in bellezza quelli della Koutoubia. Silenzio tutto intorno. Dal deserto arriva un soffio tiepido. È il momento di appoggiare la schiena sulla sabbia ancora calda e lasciare correre gli occhi lungo la via lattea.
Da sabbia a sabbia. Dal deserto a Essaouira. Ecco le spiagge lunghe e strette dell'oceano Atlantico. Battute da un vento freddo e impietoso che scaglia le vele dei surfisti verso l'orizzonte lontano. Un paradiso per gli amanti della tavola. Un inferno per i nuotatori. Ancora un paradiso per chi adora i colori puri, l'aria tersa, la musica conturbante che nasce dalla fusione delle nenie arabe e delle percussioni dell'Africa più profonda. Si chiama Gnawa, questa inconsueta mescolanza di suoni, e parla di spiriti, di mondi invisibili. Gnawa è l'arte dei guaritori negri arrivati in Marocco come schiavi in epoche lontane. Gnawa è un modo di curare il corpo e l'anima che passa attraverso la magia e le note. Gnawa è un ritmo ossessivo e martellante. Gnawa è qualcosa che non sta mai fermo, che si trasforma. Ai primi semplici suoni sciamanici si sono aggiunte contaminazioni arabe e orientali. E poi sono arrivati il rock, il pop e il jazz. Tutti hanno portato qualcosa di nuovo. E' nato un genere: il Gnawa profano, commerciale, cui ogni anno, in giugno, è dedicato un festival annuale, che richiama a Essaouira i grandi dello star system mondiale. Un evento. Il più grande evento marocchino, una manifestazione che attira migliaia di ragazzi di ogni paese, per ballare, cantare, sballare al ritmo dei tamburi.
Parallelo al genere commerciale, sopravvive il filone sacro. Quello in cui un attempato Maallem (il maestro), spesso sotto l'influsso di allucinogeni, suona gli stessi motivi che suonavano gli schiavi negri, senza variazioni e contaminazioni, e, accompagnato da gruppi di tamburi scatenati in ritmi ossessivi, presiede le cerimonie di esorcismo e possessione. Sudando, saltando, contorcendosi, vibrando colpi sulle pelli tirate degli strumenti musicali, guarisce il corpo e l'anima di chi soffre. Di chi gli crede.
Ma la bellezza di Essaouira è nei suoi due colori: il bianco e l'azzurro. Tutte le mura sono dipinte intingendo il pennello nei cieli del Sahara e nelle linde spiagge oceaniche. E' una città unica, tersa e trasparente, costruita secondo le rigide geometrie urbanistiche dell'architetto francese Théodore Cornut, che, nel 1765, il sultano Sidi Mohammed ben Alla ha voluto alla sua corte per portare qualcosa di nuovo nello stagnante ambiente indigeno. Ne è nata una città luminosa, originale, non africana, non europea, dotata di una sua anima forte, capace di calamitare nel Sud del Marocco folle di artisti, designer, grandi sarti, musicisti, intellettuali di ogni genere, che hanno fatto della città azzurra la loro casa.
Così come tutto il sud del Marocco in settembre è la casa di chi ama il profumo della menta e delle rose, il colore arancione di Marrakech, l'ocra delle rocce, il rosa della sabbia, il verde delle oasi, il giallo e il rosso dei suoq, il volo delle cicogne, il vento tiepido che arriva dal deserto.