Gentile Luigi Alfieri, ho letto che nei giorni scorsi è stato a New York per la presentazione del libro «Il sole e la neve». Aveva già avuto l'occasione di visitare la città prima di questo viaggio? Trovo che la Grande Mela sia sempre una città di grande fascino ma mi sembra che negli ultimi anni sia cambiata, perdendo qualcuno dei suoi tratti distintivi. Concorda con me? Valentina Laurelli Rivarolo di Torrile Sono stato a New York la prima volta nel 1987. In quel tempo, la città era la capitale del mondo. C'era ancora il muro di Berlino, ma Reagan, Giovanni Paolo II e la Thatcher lo stavano sgretolando. La Cina si dibatteva nella miseria alle prese col comunismo reale. L’Asia, con l’eccezione del Giappone, era considerata, a torto, terzo mondo. Gli arabi navigavano su un mare di oro nero ma non sapevano come trasformare il petrolio in ricchezza vera. New York era il centro di tutto, la città più avanzata. I suoi grattacieli inviolabili i più alti della terra. I suoi musei i più ricchi d’arte. I suoi trasporti i più efficienti, i suoi negozi i più ricchi. Infilarsi coi taxi gialli nei canyon di vetro e acciaio di Avenue of Americas, della Broadway o della Quinta era come per Alice entrare nel paese delle meraviglie o per Pinocchio in quello dei balocchi. Le ombre lunghe del Chrysler o dell’Empire State Building, del Rockefeller center erano il simbolo della potenza, del denaro, del dominio. Sembrava che l’Impero non dovesse finire mai. Sembrava che l’Occidente sarebbe stato felice per sempre, col resto del mondo in suo pugno. Tutto funzionava a meraviglia nella Grande Mela: la metropolitana era puntuale come un cronometro svizzero, i tassisti, tutti americani del Nord, parlavano e capivano perfettamente l’inglese in versione oltreatlantica, i commessi nei negozi erano gentili e disponibili. Tutto coincideva con quello che si vedeva nei film di Hollywood. Ci trovavamo in una grande metropoli, generosa, che non badava a spese pur di fare stare bene abitanti e ospiti. C'era un unico grande problema, la sicurezza. Non si poteva passeggiare per Central Park o in Upper East Side a tarda sera o di notte; proibito avvicinarsi ad Harlem e al Bronx, pena incontri ravvicinati con la malavita; massima attenzione nell’addentrarsi nelle tante aree portuali, c'era sempre qualche coltello in agguato. Ci sono tornato altre volte a New York, in questi anni. E l’ho sempre vista cambiare. Mai come questa volta. E’ sempre bella e affascinante, è sempre ricca di arte e di cultura, di negozi straordinari, di piacevoli sorprese. Ma non è più la capitale del mondo, la Roma dell’era moderna. La punta di diamante del progresso. Certo, è stato bello scoprire la grande novità della metropoli, la camminata della High Line: tra la trentesima e la dodicesima street (le strade che tagliano la città da est ad ovest) e parallela alla undicesima Avenue (le strade che corrono da Nord a Sud), correva una ferrovia sopraelevata finita in disuso. L’hanno trasformata in un parco lungo e stretto, popolato di erbe autoctone e cespugli, un giardino pensile con una vista straordinaria sulla città, circondato di capolavori dell’architettura contemporanea. Un posto dove, quando batte il sole e il cielo di New York diventa blu come quello delle Dolomiti (ma come è mai possibile?), passeggiare e corricchiare diventa un piacere infinito; si sta sospesi in un mondo surreale in cui si fondono il profumo dell’erba e i riflessi d’acciaio dei grattacieli, il clangore del traffico e le grida dei gabbiani. Con la Grande Mela da una parte e il fiume Hudson, già rassegnato a morire nell’Atlantico, dall’altra. E’ stato bello anche scoprire il nuovo quartiere alla moda: il meatpacking district, che comincia a meridione dove l’High Line finisce. Qui un tempo c'erano macelli, magazzini per la lavorazione della carne, celle frigorifere, ora ci sono negozi di moda, ristorantini, centri commerciali mascherati con cura dalle antiche linee dell’archeologia industriale. Fuori, tutto è come ai tempi dei mattatoi, i muri, le facciate, le finestre, i balconi rosseggiano del mattone industriale, macchiati dalle chiazze brunite della ghisa. Dentro, mani abili di architetti capaci, hanno creato piacevoli nidi all’insegna del buon gusto. Da visitare assolutamente il Chelsea Market, un mall postmoderno inserito in un vecchio opificio dove non è stato tolto nulla di quel che c'era nei ruggenti anni Venti. La terza grande sorpresa è scoprire come New York sia diventata una città sicura: Harlem e il Bronx sono crime free, ci vivono le famiglie della middle class e ci possono passeggiare i turisti senza rischio, così come camminare per Central Park dopo la morte del giorno non è più un’avventura. Altre belle sorprese sono il nuovo Moma e la Neue Gallery, che raccoglie i capolavori d’arte raccolti dalla famiglia Laudeer, la Morgan Librery, casa dell'ipercapitalista Pierpont Morgan, trasformata in una biblioteca-pinacoteca pubblica dal sapiente lavoro di Renzo Piano, il grattacielo del New York Times, secondo sigillo dell'architetto genovese sul paesaggio metropolitano. Ma nonostante tutto questo, nonostante tutto l’appeal, nonostante la grandiosità del panorama di Manhattan, nonostante le luci, i vetri, i riflessi, i ponti, la voglia di stupire, una cosa è chiara all’incrocio tra street e avenue: New York non è più la capitale del fondo. Non c'è la frenesia di Shanghai, non c'è la grande architettura di Pechino, non c'è l’opulenza della Mosca dei plutocrati, non c'è la skyline degli Emirati arabi. E se i grattacieli della città un tempo erano la prova della potenza dell’Impero americano, oggi denunciano la sua lenta decadenza. Le Twin Towers non ci sono più, l’Empire State Building e il Chrysler, sono stati superati in altezza da giganti arabi alimentati dai petrodollari, da mastodonti annaffiati dal concime della finanza malesiana, dalle torri di Shanghai. La sfida all’immensità del cielo oggi viene lanciata altrove. New York un tempo era una metropoli generosa, oggi è una metropoli che vuole ottenere il massimo guadagno con la minima spesa. Mentre a Londra i tassisti fanno un esame prima di ottenere la licenza, qui sono freschi immigrati dal Sudan, dall’Afghanistan, dall’Algeria, che non conoscono l’inglese e neppure la città. Mentre a Londra la metropolitana è presidiata da personale solerte che fornisce consigli e distribuisce aiuti e piantine, qui si dialoga solo con le macchinette automatiche e trovare una mappa ufficiale dei percorsi è impossibile (non ce l’ho fatta in un’intera settimana). Mentre a Londra i musei sono gratuiti, qui si pagano 30 (trenta) dollari per entrare al Metropolitan. Le dogane sono severe e i doganieri scostanti, le compagnie aeree vendono più biglietti dei posti disponibili e ti mandano in overbooking. Insomma, sono d'accordo con lei, New York è un monumento alla grandezza che c'è stata. Non alla ricchezza che verrà. Però, detto questo, le confesso, sono già pronto a staccare il prossimo biglietto per il JFK. Dubai sarà per un’altra volta. Luigi Alfieri Guarda la fotogallery di New York su Facebook cliccando QUI C'è un esagono magico, su nel Nord che bisogna vedere. E' una geometria impastata di storia, cultura, bellezza, tradizione. I vertici sono Cittadella, Castelfranco, Marostica, Bassano, Possagno e Asolo, bianca e leggera. Siamo nel profondo Veneto, a cavallo di tre province per lungo tempo ricche e sazie: Padova, Vicenza e Treviso. Una volta, in pieno Medioevo, erano tre comuni in lotta tra loro. Tre città armate che volevano dominare i vicini. Lungo i confini i podestà costruirono avamposti inattaccabili: le città murate. I padovani fortificarono Cittadella, quelli di Treviso Castelfranco, i vicentini Marostica. Attraverso queste teste di ponte, capolavori di architettura militare, piazzeforti, ma anche inni a una bellezza pratica e ruspante, si mantenne un equilibrio armato tra vicini, finché sulla scena non arrivò un uomo sanguinario, amante del male, del tormento e del dolore. Visitando le sei città murate tutto parla di lui, Ezzelino da Romano. Il tiranno che godeva delle sofferenze dei suoi nemici, delle loro urla di morte, dello strazio della carne. A Cittadella, appena varcata Porta Padova, si trova la lugubre massa della Malta, il carcere dove Ezzelino murava vivi i nemici. Nel bel mezzo del tredicesimo secolo pochi, nei comuni e nelle signorie lombarde, ignoravano cosa fosse la Malta. Dante, il sommo poeta, la cita nei canti dell’Inferno come un esempio di presenza diabolica in terra. La sua terzina, scolpita sul marmo, è ancora lì a provocare brividi, a rammentare stridor di denti. Ezzelino era nato nel 1194 a Romano, nel bel mezzo dell’Esagono, da una famiglia di grandi signori. Quando Federico II di Svevia riaccese la lotta mortale tra impero e papato e tra impero e comuni, il nobile Veneto subito si schierò con lui, facendosi ghibellino. Come il sovrano, Ezzelino era colto, intelligente, astuto; ma ben più spietato. Finchè il vento soffiò alle spalle dei fautori dell’impero universale, il dittatore conquistò città dopo città. Padova, Vicenza, Treviso, Trento furono presto sue. Le tenne in pugno con la minaccia delle armi e della tortura. Massacrò i nemici e occupò tutte le città murate che ancora oggi portano lugubri segni del suo passaggio. Come un satrapo dell’estremo oriente, come certi Sho-gun nipponici, godeva della disperazione altrui e aveva scelto la Malta come luogo per esercitare il proprio vizio. C'è chi giura che in certe notti senza luna, a Cittadella, si possano ancora cogliere antichi gemiti che salgono dalla fortezza. Con la sconfitta di Federico II a Parma, nel campo di Vittoria, tra Vicofertile e Valera, la fortuna del partito ghibellino finì. E con essa la fortuna di Ezzelino. Il tiranno, pian piano, andò perdendo il controllo delle città e delle roccaforti. Infine, ferito in battaglia a Soncino, nel Cremonese, si inflisse una morte atroce come quella dei suoi nemici. Rifiutò le cure, si strappò i bendaggi, scarnificò le ferite fino a rimanere dissanguato tra mille tormenti. Pian piano, Cittadella, Castelfranco, Marostica e le altre murate, dopo essere passate da un signore all’altro, dopo essere state contese da Scaligeri e Carraresi, finirono nelle mani della Serenissima Repubblica di Venezia. E’ per questo che oggi passeggiando in piena terraferma si odora profumo di mare e si ammirano forme d’oriente.
C'è un posto nel mondo dove l'imam, il prete ortodosso e il rabbino, si incontrano e dialogano; dove le grandi religioni monoteiste, islam, cristianesimo e ebraismo, si incrociano senza generare conflitti. Questo posto è la il Tatarstan, la Terra dei tartari, e si trova nel cuore della Russia più profonda, adagiato lungo le sponde della «grande madre Volga», il fiume dei fiumi.
I tartari, guerrieri mongoli sulle cui spade Gengis Khan ha costruito il proprio impero, sono arrivati qui nel tredicesimo secolo, hanno importato la religione di Maometto e hanno fondato un grande stato, l'«Orda d'oro», che in pochi anni si è frantumato in cento briciole. La città simbolo dell'«Orda d'oro» è la mitica Kazan, che nel 2005 festeggerà i mille anni di vita. Per molto tempo, Kazan è stata la bella addormentata sul Volga, ma ora, in occasione del grande giubileo, vuole rivelarsi al mondo in tutta la sua bellezza, che è quella tipica di tutte le città di frontiera, dei centri che hanno saputo essere crocevia di razze e di storia. Multietnica, colta, elegante, un vero crogiolo di stili achitettonici e di tendenze artistiche. E, soprattutto, un faro per chi vuole fare della tolleranza religiosa un punto di approdo. E' un risultato, quello della convivenza tra le fedi, conquistato attraverso il sangue e il dolore, un risultato imposto dalle dure lezioni della storia, che hanno dimostrato come le violenze e i soprusi non pagano i popoli. E di violenze e soprusi Kazan, nella sua vita millenaria, ne ha vissute di tremendi. A cominciare da quando Ivan il Terribile, lungo il percorso di trasformazione del granducato di Mosca in impero russo, iniziò la conquista dei territori Tartari. Nel 1552, dopo un lungo assedio, la musulmana Kazan cadde nelle mani delle truppe cristiane di Mosca. Il sangue corse a fiumi, la maggior parte della popolazione fu sterminata: l'etnia tartara si salvò perché Ivan, per conquistare la città, si servì di migliaia di guerrieri rinnegati di discendenza mongola. Per secoli musulmani e ortodossi si scontrarono senza risparmio di violenze di ogni genere, fino a che lungo il Volga arrivò la grande livella: il comunismo. A partire dal 1929, moschee, chiese, conventi e sinagoghe furono chiuse e trasformate in magazzini, circoli ricreativi, stalle. La pratica religiosa proibita, i sacerdoti di tutte le fedi perseguitati: regnava l'ordine di Josif Visarionovic Dzugasvili, in arte Stalin. Una forma di ordine che non prevedeva né fede né pietà.
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Luigi AlfieriGiornalista. Scrittore. Giramondo. Categories
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November 2013
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