«Mamma li turchi» e scoppia la festa. Luci abbaglianti di mille colori, fuochi d’artificio, processioni di santi, bande che sfilano scatenando gli ottoni, danza del ventre, archibugi, rutilanti costumi medioevali, scudi, corazze, cantastorie, nitriti di cavalli, preghiere e ancora fuochi. La brezza leggera che viene dal mare si riempie di suoni, di odori, di umori. E’ la festa come la si intende qui al Sud. E’ «la Scamiciata» di Fasano. Tre giorni di allegria spensierata e rumorosa. Tre giorni senza notti. Tre giorni immersi nella storia barocca. Tre giorni per ricordare quel 2 giugno del 1678, quando i pirati turchi sbarcarono sulla costa per uccidere, depredare, stuprare. Doveva essere un trionfo per gli infedeli, una disfatta per i cristiani, ma non finì così. I masnadieri venuti dall’Oriente non avevano fatto i conti con Fra Zurla da Crema, il Cavaliere di Malta che organizzò la resistenza della popolazione e, al comando di un manipolo di poveri scamiciati, ricacciò in mare il terrore e la morte. Trasformò l’ormai certa schiavitù in vittoria. Gli stupri e le violenze in trionfo. Quella di Fasano è una festa che nasce dalla storia, perché quaggiù, nella Piana degli Ulivi, che si stende verde e docile ai piedi delle colline di Murgia tra la periferia di Bari e la bianca Ostuni, la storia è la vita. Si specchia nell’acqua dell’Adriatico, si nasconde sotto la terra purpurea e ubertosa, si respira nell’aria leggera. Qui, a due passi da Fasano ci sono gli scavi di Egnazia, che cominciano con una necropoli Messapica, si stendono su una città romana e, infine, regalano resti bizantini. Tra il rosso dei papaveri, il giallo dei margheritoni selvatici, il rosa dei capperi, il profumo di salmastro fuso con gli odori della macchia mediterranea e della mentuccia, spuntano i monconi di gloriose civiltà: nove secoli prima di Cristo, arrivò dal mare un popolo misterioso, di cui non si conoscono le radici. Non si sa se fosse una popolazione dell’Illiria, del Peloponneso o dell’Asia lontana. Si sa, perché ce lo raccontano le tombe di Egnazia, che si trattava di una civiltà raffinata e ricca. Capace di costruire e comprare oggetti di sublime eleganza. Nel parco archeologico sta per essere re-inaugurato un piccolo museo che da solo vale un viaggio in Puglia. Custodisce i tipici trozzelli, vasi messapici col manico a carrucola, una grande anfora nera con disegni gialli (e non rossi come quelli greci), caratteristici della misteriosa popolazione venuta da oriente, e alcuni capolavori di scuola Attica, importati dal Peloponneso. Poi ci sono statue e reperti di ogni genere, fino ad arrivare all’epoca romana. Le legioni latine sono arrivate nel 272 avanti Cristo trasformando Egnazia in una città latina. Girando, quasi in solitudine, per gli scavi, accompagnati dalla colonna sonora che nasce dal frinito delle cicale e dal sussurrare delle onde, ecco spuntare le pietre accaldate che segnalano le antiche terme, la basilica e il foro. Ecco spuntare, tra salvia e rosmarino, il percorso della via Traiana, che portava a Brindisi i carri dei mercanti e le armi delle legioni, potenti senatori destinati all’esilio e giovani studiosi in viaggio verso il sapere greco. Erano Brindisi e la Puglia le porte dell’Ellade e dell’Oriente. Quando l’imperatore Traiano decise di affiancare all’antica via Appia una nuova strada, parallela, che arrivasse al mitico imbarco per l’Asia, a Egnazia esplose una nuova ricchezza. Durò fino a che da settentrione non giunsero le orde dei barbari e dall’Adriatico le navi saracene. L'Alto Medioevo cancellò Egnazia dalla storia, ma non la civiltà dalla Piana degli Ulivi. Attorno a Fasano sono sparse le prove di una nuova vita per le genti dell’Apulia. Si trovano nelle lame. Le lame sono fiumi prosciugati, piccoli canyon di tufo e di arenaria che serpeggiano tra bassa collina e pianura. La più frequentata dai pellegrini della cultura è la Lama d’Antico. Ci si arriva attraversando campi e frutteti battuti dal sole. Lo spettacolo è, da subito, straordinario: le pareti della gola sono abitate da olivi e carrubi secolari, piante di melograno e cespugli di capperi in fiore. Lungo quello che fu il letto del fiume corrono le macchie azzurre, gialle, rosse lilla di fiori di ogni sorta, che spandono nell’aria profumi a volte dolci a volte pungenti. Niente lascia immaginare che dietro ai minuscoli buchi neri scavati nella roccia si nasconda un intero villaggio sotterraneo: con abitazioni, la chiesa e frantoi scavati nella roccia. Una chiesa vera, con piccole navate, abside, cattedra (evidentemente qui stava un alto prelato) e pitture alle pareti. Affreschi, dai colori smaglianti e dall’iconografia ben curata, che sono sorprendenti testimonianze dell’arte di secoli ritenuti, a torto, bui e senza vita intellettuale. E’ in queste lame che si sono ritirati gli abitanti della costa per sfuggire alle incursioni dei goti e degli infedeli. Ed in queste lame non vivevano come trogloditi incivili, ma, guidati dai monaci, conducevano un’esistenza laboriosa e complessa. La roccia donava una temperatura stabile e sopportabile sia in estate che in inverno, la terra alluvionale era ricca di minerali e molto fertile, e, soprattutto, i piccoli canyon di tufo regalavano l’invisibilità. Impossibile per i saraceni scoprire i villaggi ipogei se non allontanandosi dal mare e svolgendo una lunga opera di ricerca, spesso vana. E’ per questo che l’attività agricola, nella dolce piana degli ulivi, ha avuto come centro la lama fino al tredicesimo secolo, quando sono nate le prime masserie fortificate. Sempre ai bordi «di» o sopra «un» villaggio scavato nel tufo. Non c'è una fattoria di origine medioevale che non abbia alle sue radici una struttura sotterranea, che non nasconda un frantoio ipogeo: alla luce del sole stanno la sagoma elegante e massiccia della torre centrale, le stalle, i magazzini, le dipendenze, sotto terra, i ricordi abbandonati e cadenti di una civiltà in fuga dalla violenza e dalla paura. Fasano: una città che profuma | Piante millenarie |
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Gentile Luigi Alfieri, ho letto che nei giorni scorsi è stato a New York per la presentazione del libro «Il sole e la neve». Aveva già avuto l'occasione di visitare la città prima di questo viaggio? Trovo che la Grande Mela sia sempre una città di grande fascino ma mi sembra che negli ultimi anni sia cambiata, perdendo qualcuno dei suoi tratti distintivi. Concorda con me? Valentina Laurelli Rivarolo di Torrile Sono stato a New York la prima volta nel 1987. In quel tempo, la città era la capitale del mondo. C'era ancora il muro di Berlino, ma Reagan, Giovanni Paolo II e la Thatcher lo stavano sgretolando. La Cina si dibatteva nella miseria alle prese col comunismo reale. L’Asia, con l’eccezione del Giappone, era considerata, a torto, terzo mondo. Gli arabi navigavano su un mare di oro nero ma non sapevano come trasformare il petrolio in ricchezza vera. New York era il centro di tutto, la città più avanzata. I suoi grattacieli inviolabili i più alti della terra. I suoi musei i più ricchi d’arte. I suoi trasporti i più efficienti, i suoi negozi i più ricchi. Infilarsi coi taxi gialli nei canyon di vetro e acciaio di Avenue of Americas, della Broadway o della Quinta era come per Alice entrare nel paese delle meraviglie o per Pinocchio in quello dei balocchi. Le ombre lunghe del Chrysler o dell’Empire State Building, del Rockefeller center erano il simbolo della potenza, del denaro, del dominio. Sembrava che l’Impero non dovesse finire mai. Sembrava che l’Occidente sarebbe stato felice per sempre, col resto del mondo in suo pugno. Tutto funzionava a meraviglia nella Grande Mela: la metropolitana era puntuale come un cronometro svizzero, i tassisti, tutti americani del Nord, parlavano e capivano perfettamente l’inglese in versione oltreatlantica, i commessi nei negozi erano gentili e disponibili. Tutto coincideva con quello che si vedeva nei film di Hollywood. Ci trovavamo in una grande metropoli, generosa, che non badava a spese pur di fare stare bene abitanti e ospiti. C'era un unico grande problema, la sicurezza. Non si poteva passeggiare per Central Park o in Upper East Side a tarda sera o di notte; proibito avvicinarsi ad Harlem e al Bronx, pena incontri ravvicinati con la malavita; massima attenzione nell’addentrarsi nelle tante aree portuali, c'era sempre qualche coltello in agguato. Ci sono tornato altre volte a New York, in questi anni. E l’ho sempre vista cambiare. Mai come questa volta. E’ sempre bella e affascinante, è sempre ricca di arte e di cultura, di negozi straordinari, di piacevoli sorprese. Ma non è più la capitale del mondo, la Roma dell’era moderna. La punta di diamante del progresso. Certo, è stato bello scoprire la grande novità della metropoli, la camminata della High Line: tra la trentesima e la dodicesima street (le strade che tagliano la città da est ad ovest) e parallela alla undicesima Avenue (le strade che corrono da Nord a Sud), correva una ferrovia sopraelevata finita in disuso. L’hanno trasformata in un parco lungo e stretto, popolato di erbe autoctone e cespugli, un giardino pensile con una vista straordinaria sulla città, circondato di capolavori dell’architettura contemporanea. Un posto dove, quando batte il sole e il cielo di New York diventa blu come quello delle Dolomiti (ma come è mai possibile?), passeggiare e corricchiare diventa un piacere infinito; si sta sospesi in un mondo surreale in cui si fondono il profumo dell’erba e i riflessi d’acciaio dei grattacieli, il clangore del traffico e le grida dei gabbiani. Con la Grande Mela da una parte e il fiume Hudson, già rassegnato a morire nell’Atlantico, dall’altra. E’ stato bello anche scoprire il nuovo quartiere alla moda: il meatpacking district, che comincia a meridione dove l’High Line finisce. Qui un tempo c'erano macelli, magazzini per la lavorazione della carne, celle frigorifere, ora ci sono negozi di moda, ristorantini, centri commerciali mascherati con cura dalle antiche linee dell’archeologia industriale. Fuori, tutto è come ai tempi dei mattatoi, i muri, le facciate, le finestre, i balconi rosseggiano del mattone industriale, macchiati dalle chiazze brunite della ghisa. Dentro, mani abili di architetti capaci, hanno creato piacevoli nidi all’insegna del buon gusto. Da visitare assolutamente il Chelsea Market, un mall postmoderno inserito in un vecchio opificio dove non è stato tolto nulla di quel che c'era nei ruggenti anni Venti. La terza grande sorpresa è scoprire come New York sia diventata una città sicura: Harlem e il Bronx sono crime free, ci vivono le famiglie della middle class e ci possono passeggiare i turisti senza rischio, così come camminare per Central Park dopo la morte del giorno non è più un’avventura. Altre belle sorprese sono il nuovo Moma e la Neue Gallery, che raccoglie i capolavori d’arte raccolti dalla famiglia Laudeer, la Morgan Librery, casa dell'ipercapitalista Pierpont Morgan, trasformata in una biblioteca-pinacoteca pubblica dal sapiente lavoro di Renzo Piano, il grattacielo del New York Times, secondo sigillo dell'architetto genovese sul paesaggio metropolitano. Ma nonostante tutto questo, nonostante tutto l’appeal, nonostante la grandiosità del panorama di Manhattan, nonostante le luci, i vetri, i riflessi, i ponti, la voglia di stupire, una cosa è chiara all’incrocio tra street e avenue: New York non è più la capitale del fondo. Non c'è la frenesia di Shanghai, non c'è la grande architettura di Pechino, non c'è l’opulenza della Mosca dei plutocrati, non c'è la skyline degli Emirati arabi. E se i grattacieli della città un tempo erano la prova della potenza dell’Impero americano, oggi denunciano la sua lenta decadenza. Le Twin Towers non ci sono più, l’Empire State Building e il Chrysler, sono stati superati in altezza da giganti arabi alimentati dai petrodollari, da mastodonti annaffiati dal concime della finanza malesiana, dalle torri di Shanghai. La sfida all’immensità del cielo oggi viene lanciata altrove. New York un tempo era una metropoli generosa, oggi è una metropoli che vuole ottenere il massimo guadagno con la minima spesa. Mentre a Londra i tassisti fanno un esame prima di ottenere la licenza, qui sono freschi immigrati dal Sudan, dall’Afghanistan, dall’Algeria, che non conoscono l’inglese e neppure la città. Mentre a Londra la metropolitana è presidiata da personale solerte che fornisce consigli e distribuisce aiuti e piantine, qui si dialoga solo con le macchinette automatiche e trovare una mappa ufficiale dei percorsi è impossibile (non ce l’ho fatta in un’intera settimana). Mentre a Londra i musei sono gratuiti, qui si pagano 30 (trenta) dollari per entrare al Metropolitan. Le dogane sono severe e i doganieri scostanti, le compagnie aeree vendono più biglietti dei posti disponibili e ti mandano in overbooking. Insomma, sono d'accordo con lei, New York è un monumento alla grandezza che c'è stata. Non alla ricchezza che verrà. Però, detto questo, le confesso, sono già pronto a staccare il prossimo biglietto per il JFK. Dubai sarà per un’altra volta. Luigi Alfieri Guarda la fotogallery di New York su Facebook cliccando QUI Egregio Luigi Alfieri, mi capita spesso di leggere la pagina dei viaggi e vedo che lo spazio riservato all’estero è superiore a quello riservato all’Italia. Pensate che sia meno interessante, meno bella, del resto del mondo? Pensate che sia meglio uscire dai confini per godere di una buona vacanza? In ogni caso, mi dice quali sono secondo lei alcuni luoghi italiani che meritano di essere visti, escludendo le città grandi? Mauro Bianchi 10 febbraio, Parma Egregio signor Bianchi, io penso esattamente l’opposto. Per me l’Italia è il Paese più bello del mondo. E questo mio giudizio è confermato dai dati statistici. Secondo i vari studi in materia, la nostra penisola ospita dal sessanta al settanta per cento del patrimonio culturale mondiale. Chiese, musei, castelli, resti antichi, borghi, città d’arte, una natura straordinaria: abbiamo tutto. Da noi non si può fare una dozzina di chilometri senza imbattersi in qualcosa di meraviglioso. Se esce da Parma, già a Gaione trova una pieve romanica straordinaria e se prende la direzione ovest, c'è quella di Vicofertile. A Nord si imbatte nella certosa di Paradigna. Una manciata di chilometri dalla città e ci sono i castelli di Torrechiara e di Fontanellato. Pochi parmigiani sono entrati nella Rocca di San Secondo: sulle mura dormono capolavori della pittura (vedere alla voce Sala delle Gesta Rossiane) che in qualsiasi Paese del mondo sarebbero considerati unici. Da noi ci hanno tenuto dentro gli uffici del comune sino a poco tempo fa. L’elenco delle bellezze della nostra provincia è interminabile: dalla Pieve di Sasso, alle terre verdiane, dal Castello di Bardi al Duomo di Berceto, dalle terme Berzieri al borgo di Vigoleno (in verità è in provincia di Piacenza), dal paesino di Corchia alle miniere bercetesi, potremmo andare avanti per ore senza contare quello che offre la città capoluogo. Ma Parma non è un’eccezione. Mantova, Cremona, Ferrara, Modena sono altrettanto ricche. Le città che non meritano di essere visitate si contano sulle dita di una mano. Non c'è bisogno di guide o di grande cultura per scoprire i nostri tesori. Una volta ero con mia moglie in Friuli per un weekend: abbiamo visitato Aquileia coi suoi resti romani, le sue basiliche i suoi cipressi pensosi; Grado con le pievi profumate di Medioevo; Palmanova, con le mura rosse affogate nella vitalba; Udine, un po' tedesca e un po' levantina. Ci restava ancora un pomeriggio a disposizione. Nel duomo di Udine ci avvicina la custode, una signora elegante e distinta, e ci dice: siete mai stati a Cividale? No, rispondiamo. Allora andate, sono pochi chilometri da qui. Visitate il tempietto longobardo. All’improvviso mi sono ricordato che pochi mesi prima l’Unesco aveva dato ad alcune città longobarde italiane la qualifica di "patrimonio dell’umanità". Una di questa era Cividale, ma non ci avevo fatto molto caso. Poi mi sono ricordato che sui sussidiari Cividale compariva come prima capitale dei longobardi in marcia verso il Sud dell’Italia. Quando siamo arrivati nella cittadina, sotto un mite sole di settembre, abbiamo subito cercato il tempietto, curandoci poco dello stupendo paesaggio urbano fatto di archi a sesto acuto e di portici a crociera. Ci siamo trovati davanti un grande convento di suore affacciato su un fiume dall’acqua limpida sui cui si specchiavano le cime delle prime montagne alpine. E dentro al convento, come chiuso all’interno di un sistema di matrioske, il tempietto. C'è un esagono magico, su nel Nord che bisogna vedere. E' una geometria impastata di storia, cultura, bellezza, tradizione. I vertici sono Cittadella, Castelfranco, Marostica, Bassano, Possagno e Asolo, bianca e leggera. Siamo nel profondo Veneto, a cavallo di tre province per lungo tempo ricche e sazie: Padova, Vicenza e Treviso. Una volta, in pieno Medioevo, erano tre comuni in lotta tra loro. Tre città armate che volevano dominare i vicini. Lungo i confini i podestà costruirono avamposti inattaccabili: le città murate. I padovani fortificarono Cittadella, quelli di Treviso Castelfranco, i vicentini Marostica. Attraverso queste teste di ponte, capolavori di architettura militare, piazzeforti, ma anche inni a una bellezza pratica e ruspante, si mantenne un equilibrio armato tra vicini, finché sulla scena non arrivò un uomo sanguinario, amante del male, del tormento e del dolore. Visitando le sei città murate tutto parla di lui, Ezzelino da Romano. Il tiranno che godeva delle sofferenze dei suoi nemici, delle loro urla di morte, dello strazio della carne. A Cittadella, appena varcata Porta Padova, si trova la lugubre massa della Malta, il carcere dove Ezzelino murava vivi i nemici. Nel bel mezzo del tredicesimo secolo pochi, nei comuni e nelle signorie lombarde, ignoravano cosa fosse la Malta. Dante, il sommo poeta, la cita nei canti dell’Inferno come un esempio di presenza diabolica in terra. La sua terzina, scolpita sul marmo, è ancora lì a provocare brividi, a rammentare stridor di denti. Ezzelino era nato nel 1194 a Romano, nel bel mezzo dell’Esagono, da una famiglia di grandi signori. Quando Federico II di Svevia riaccese la lotta mortale tra impero e papato e tra impero e comuni, il nobile Veneto subito si schierò con lui, facendosi ghibellino. Come il sovrano, Ezzelino era colto, intelligente, astuto; ma ben più spietato. Finchè il vento soffiò alle spalle dei fautori dell’impero universale, il dittatore conquistò città dopo città. Padova, Vicenza, Treviso, Trento furono presto sue. Le tenne in pugno con la minaccia delle armi e della tortura. Massacrò i nemici e occupò tutte le città murate che ancora oggi portano lugubri segni del suo passaggio. Come un satrapo dell’estremo oriente, come certi Sho-gun nipponici, godeva della disperazione altrui e aveva scelto la Malta come luogo per esercitare il proprio vizio. C'è chi giura che in certe notti senza luna, a Cittadella, si possano ancora cogliere antichi gemiti che salgono dalla fortezza. Con la sconfitta di Federico II a Parma, nel campo di Vittoria, tra Vicofertile e Valera, la fortuna del partito ghibellino finì. E con essa la fortuna di Ezzelino. Il tiranno, pian piano, andò perdendo il controllo delle città e delle roccaforti. Infine, ferito in battaglia a Soncino, nel Cremonese, si inflisse una morte atroce come quella dei suoi nemici. Rifiutò le cure, si strappò i bendaggi, scarnificò le ferite fino a rimanere dissanguato tra mille tormenti. Pian piano, Cittadella, Castelfranco, Marostica e le altre murate, dopo essere passate da un signore all’altro, dopo essere state contese da Scaligeri e Carraresi, finirono nelle mani della Serenissima Repubblica di Venezia. E’ per questo che oggi passeggiando in piena terraferma si odora profumo di mare e si ammirano forme d’oriente. La macchina del tempo esiste ed è una nave. Se ne sta ancorata a Luxor, alcuni chilometri a Valle della chiusa di Esna. Tutte le settimane salpa per un viaggio verso il meridione e verso il passato. Pochi minuti di navigazione e si sprofonda in un mondo magico. Un mondo verde, rosa ocra. Verde come i palmeti che accompagnano la corsa del fiume. Rosa come la sabbia del deserto a ridosso delle piantagioni. Ocra come la pietra con cui gli egizi hanno innalzato i loro templi. Il viaggio verso il passato avviene nel silenzio assoluto. Il silenzio di quando ancora i motori non esistevano. Il silenzio rotto solo dal raglio degli asini che segnalano la vicinanza di un villaggio. L'ambiente è rimasto quello di quattromila anni fa. Di quando i faraoni erano i sovrani più potenti della terra. Di quando Iside e Osiride erano i padroni dei cieli, dei fiumi e del deserto. Di quando le prime piramidi cominciavano a salire verso il sole e lungo il fiume non esistevano ancora il cavallo e la ruota. La crociera sul Nilo è un viaggio sulle acque e un viaggio a ritroso nella storia. Alla scoperta delle radici della civiltà e della religione. E nell'antico Egitto la religione, come la civiltà, nasce dalla natura, dall'acqua e da quanto la circonda. Dalla luce che feconda i campi. Gli dei che popolano il primo Pantheon creato dall'uomo sono il sole, il Nilo, il coccodrillo, la mucca, lo sciacallo e tutti gli animali che vivono tra fiume e deserto. Si chiamano, Ra, Aton, Amon, Sobek, Anubi, abitano in cielo, ma vengono dalla terra. Sono il limo che rende fertili i campi, i raggi caldi che li fecondano, gli armenti che aiutano l'uomo nel suo lavoro. I pilastri su cui si fonda la prima grande civiltà agricola del Mediterraneo. Gli stessi su cui si fonda, ancora oggi, la vita, lenta e molle, lungo il fiume. Navigando verso mezzogiorno, da Esna alla prima cataratta, dove è stata costruita la diga di Assuan, si incontrano le preghiere di pietra innalzate agli dei dagli antichi sacerdoti. Il primo tempio ad apparire, dopo una breve navigazione tra sabbia e palmeti, baciati dal sole del tropico tiepido in questi giorni d'inverno, è quello di Edfu, dedicato al dio Horus, il dio dalla testa di falco, figlio di Iside e Osiride, con cui formava la prima trinità della storia umana. Ancora una lunga corsa nel silenzio e nella luce accesa, ma non accecante, ed ecco stagliarsi l'inconfondibile sagoma di Kom Ombo, il santuario dedicato al dio coccodrillo, Sobek. Un omaggio al Nilo, alle sue acque e al limo, che ad ogni inondazione rendeva fertili le terre egizie. La crociera finisce ad Assuan, dove si incontra il tempio di Philae, uno degli angoli più fotografati del mondo. Qui, accanto al chiosco di Traiano, si trova il piccolo tempio di Hathor la mucca celeste. Per vedere il più celebre monumento egiziano, Abu Simbel, bisogna scendere dalla macchina del tempo, arrivare all'aeroporto e imbarcarsi su un Airbus. E' il ritorno al futuro.
A fine maggio nelle contee irlandesi scoppia la fioritura delle ginestre. Tutto è giallo: le montagne, le scogliere, i bordi delle strade, i giardini, le siepi e i muretti che delimitano lo spazio per il pascolo di pecore, mucche e cavalli. Nell'aria si spande il profumo dolce dei fiori, nei cieli cobalto corrono nubi bianche impazzite. Sulle scogliere si sente il brontolio del mare, che sale dalla spuma alle rocce. In tutta l'Irlanda: quella repubblicana del Sud e quella Unionista del Nord, unite dal paesaggio e dalla cultura ma divise dalla politica, dalla religione, dalla stupidità degli uomini. A volte, le unità di misura raccontano qualcosa di più della distanza tra una città e l'altra. A volte le unità di misura identificano un Paese. Simboleggiano una cultura, un'idea politica, una fede. Fin che sotto ai cartelli stradali i dati sono riferiti ai chilometri, vuol dire che ci si trova nella Repubblica d'Irlanda, un paese indipendente e cattolico. Quando compaiono le indicazioni in miglia vuol dire che siamo in Irlanda del Nord, un paese che appartiene alla Gran Bretagna, dove regna Elisabetta I e la maggioranza della popolazione è protestante. Tra i due fratelli celtici, porzioni della stessa isola, non ci sono confini né barriere doganali.
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Luigi AlfieriGiornalista. Scrittore. Giramondo. Categories
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November 2013
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