La neve scricchiola sotto le suole gommate delle scarpe. Sta sui tetti, nei parchi, sul Baltico ghiacciato. Sulle guglie cipollose delle chiese ortodosse, sui colbacchi di Astrakan, sulle vecchie Zigulì e sulle lunghe Mercedes nere di ricchezza parcheggiate con le ruote sui marciapiedi. Domina il bianco, nell'inverno di San Pietroburgo. Ma il bianco di quassù ha mille colori. Ha l'azzurro, lo smeraldo, il giallo e il verde marcio che gli architetti italiani hanno dato alle regge, ai teatri, ai palazzi del governo, e alle residenze nobiliari. Ha il blu, l'oro e l'arancio delle cupole delle chiese. Ha i bruni dei Van Dyck, i rosa dei Rembrandt, le iridescenze strazianti dei Leonardo e dei Raffaello che sono custoditi nelle sale dell'Ermitage, il museo più ricco del mondo: due milioni e cinquecento mila pezzi. Ha il turchese venato di nero che segna gli occhi delle belle donne di quassù. Le più belle donne del Nord. E tutto questo sfavillio di colori è coperto dal bianco della neve. Pietro il Grande, il più «grande» di tutti gli zar russi, ha voluto questa città e l'ha voluta proprio così, bianca e colorata, come è oggi. Esisteva il delta di un fiume, la Neva, esistevano 42 isole e una palude immensa. Esisteva il Baltico. Non esisteva nient'altro in questa terra inospitale. Pietro decise che qui doveva nascere una città, la più bella, la capitale di Santa Madre Russia. Era il 1703, quando iniziarono i lavori. Siccome l'imperatore e i suoi eredi volevano una città europea e moderna scelsero i migliori architetti del continente. Italiani, naturalmente. Toccò a Domenico Trezzini, Carlo Rossi e Bartolomeo Rastrelli immaginare la Pietroburgo di oggi. La città delle tinte pastello. La città delle grandi prospettive, dei viali larghi, dei palazzi imponenti ed elastici. Barocchi, sì, neoclassici, pure, ma agili, avvolgenti e ricoperti di intonaci smaglianti, caldi. Colori che la rivoluzione di ottobre e il tallone del regime bolscevico avevano ricoperto di una patina grigia, ma che dai tempi di Gorbaciov in avanti sono tornati a brillare come prima. Tanto Leningrado era triste, quanto San Pietroburgo è vivace, allegra. Allegra e colta. Non si può passeggiare lungo la Prospettiva Nevskij, il corso più elegante della città, senza pensare al racconto che vi ha ambientato Nikolaj Gogol, Nevskij Prospekt, senza entrare nel Literaturnoe Kafe, l'antico Wolf e Beranger, dove il più amato poeta russo, Aleksander Puskin, fece una sosta prima di recarsi all'appuntamento con la morte: si godeva il tepore della stufa, assorbiva i profumi del legno e dei liquori, mentre monsieur Dantès, dongiovanni francese che ne aveva insidiato la bella moglie, lo aspettava per ucciderlo in duello. Sulla Nevskij hanno passeggiato i personaggi di Dostoevskij e Tolstoj, e riecheggiano le poesie di Aleksandr Block e Anna Achmatova, così come le note di Igor Stravinskij e Piotr Tchaicovsky, che crearono le musiche degli impareggiabili balletti russi messi in scena da Diaghilev e interpreti da Vaclav Nijinsky e Rudolf Nureiev. Chi non ha visto uno spettacolo di danza al teatro Mariinskij non ha visto San Pietroburgo. Chi lo ha visto capisce meglio di ogni altro l'essenza della città: il soffio del vento del Nord, gelido e pungente, il giardino d'estate spoglio e bianco, i canali e i fiumi ghiacciati, la sagoma puntuta dell'Ammiragliato, il cielo grigio e minaccioso che precede la tormenta, la mole della fortezza di San Pietro e Paolo. Chi lo ha visto ha in tasca la chiave per partire alla scoperta delle meravigliose regge che circondano l'antica capitale: Carskoe Selo, Peterhof, Pavlovsk e Gatcina. Chi lo ha visto capisce la pazienza dei pescatori solitari che se ne stanno seduti per ore sul ghiaccio del Baltico. Capisce il silenzio dei monasteri ortodossi. Capisce l'anima russa. E quando l'aereo lo riporta verso occidente pensa alla Neva, placida, lenta e instancabile, che porta blocchi di ghiaccio azzurro verso il mare. |
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Luigi AlfieriGiornalista. Scrittore. Giramondo. Categories
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November 2013
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