In Namibia gli spazi sono infiniti e gli anni si contano a milioni. I deserti e le pietraie degli altopiani si distendono senza limiti. Le dune partono dal cuore del paese e si susseguono l’una all’altra senza fine: viaggiando verso dove muore il sole, l’ultima è la spiaggia dell’Oceano. Allo stesso modo si alternano le colline e i plateau dirigendosi verso est. Rilievi dolci come le labbra di una fanciulla schiuse in un sorriso circondano pianure secche e desolate, per centinaia di chilometri. Di tanto in tanto l’uniformità dell’orizzonte è rotta da un fiume, oppure da un lago. Ma tutti sono irrimediabilmente a secco. Perché la Namibia è un paradiso terrestre sì, ma prosciugato. Un Eden arido, dove tutto, le cose, gli animali, la vita, i profumi, i colori, è ridotto alla sua essenza più intima, al suo significato più vero. La mancanza d’acqua non ha cancellato nulla, ha reso tutto più forte. Le bestie si sono adattate al clima e si sono rinvigorite. Qui un orice può vivere tra le dune senza bere nulla per un mese. Gli elefanti del deserto hanno le zampe più magre e il piede più largo per non sprofondare nella sabbia. Le zebre di montagna (Hartmann’s zebra) hanno una riserva di sangue nel collo da spedire al cervello per raffreddarlo quando si scalda troppo. I fiori, al fine di attirare i pochi insetti che volano sulle pietraie, hanno colori e profumi più intensi. Stordenti. E le vite, quelle degli animali e quelle degli uomini, sono più vere, perché quaggiù il tempo ha un’altra dimensione e un’altra velocità. Lo si misura coi movimenti del sole, della luna che splende in un cielo cobalto, e delle stelle. La Namibia è un posto per chi ama vedere i giorni nascere e morire. Quando la luce è scesa dietro le colline, nei campi tendati si accende il fuoco, aspettando la comparsa della Croce del Sud. Mentre il legno sfrigola e le scintille si lanciano nel buio, i rangers, i cuochi, le lavandaie, i battitori cominciano a raccontare le leggende dell’Africa australe. Parlano di persone, di animali, di luoghi che la tradizione orale ha trasformato in mito. Parlano dell’“Uomo dei Cespugli”, Philip Stander, il Bushman, che vive maggior parte della sua esistenza tra le dune e i boschetti, per salvare i leoni dall’estinzione. Parlano di Christiaan (Chris) Bakkes, che è sopravvissuto all’attacco di due coccodrilli mentre si bagnava nel fiume. Parlano di Re Leonardo e del suo branco. Erano sei leoni del deserto, gli ultimi sei, che vivevano tra le alture della Skeleton Coast. Tre maschi sono stati uccisi dai cacciatori di trofei, le tre femmine avvelenate dagli allevatori di asini. Si parla del tempo, attorno al fuoco. I rangers raccontano che il Namib è il deserto più vecchio del mondo: 15 milioni di anni. Che il pan (un lago salato prosciugato) di Etosha ha 25 milioni di anni. Che la foresta pietrificata di Damaraland ne ha 12, di milioni di anni. Allora, nel calore delle fiamme avvolto nel buio dell’altipiano, qualcuno ricorda che la terra di anni ne ha 4 miliardi e che l’uomo la popola solo da 250 mila. Che le prime poesie sono state scritte meno di tremila anni fa e i primi quadri ad olio hanno solo 7 secoli. Che la vita dell’uomo di fronte all’immensità siderale è un lampo. Ma nella durata di quel lampo, quel granello di sabbia perso nell’universo, è capace di misurare l’infinità del tempo, di recitare versi e di dipingere quadri. Christiaan Bakkes si alza e con voce ferma e dolce, attacca una poesia di Rudyard Kipling: «Di ogni battaglia il finale è una fredda pietra tombale...». La stessa pietra che, ad un certo punto, attende la gazzella, l’uomo e il leone. Ma qui sul plateau della Namibia, nessuno ha paura di questa pietra, perché qui si sente più che altrove che la morte è parte della vita. Il viaggio di chi vuole conoscere la Namibia selvaggia degli spazi infiniti e senza tempo comprende almeno quattro tappe, quattro campi tendati e lodges della Wilderness Safaris (www.wilderness-safaris.com), posti in luoghi persi nel nulla e collegati tra loro da un sistema di piccoli campi volo (airstrip) e da aerei ad elica, più l’immersione finale nel parco di Etosha. La prima tappa parte dal centro sud del Paese, dove si trova il “Kulala Desert Lodge”. Qui c’è un posto che si chiama Sossusvlei; nella lingua dei nativi significa “dove il fiume muore” e dove muore il fiume Tsauchab comincia il deserto del Namib. Le dune di Sossusvlei, sono rosse come le strade dell’Africa. Così preziose che le hanno numerate come i profumi di Chanel: la numero 7 è la più alta del mondo (380 metri), la 45 e la 47 sono le più spettacolari. La loro non è una bellezza fissa e immutabile, ma quella di esseri viventi che cambiano aspetto di giorno in giorno, sotto l’effetto del vento che le rimodella con delicate mani d’artista e di ora in ora, sotto l’effetto del sole. Alle prime luci dell’alba le colline di sabbia sono spaccate in due da una linea sottile come una lama. Una metà ha il colore del sangue di un’antilope sbranata dal leone, l’altra metà è scura come la pece. Nel pieno meriggio, le ombre lunghe come forchette si accorciano e il sole stende una mano di rosa metallico su tutto il paesaggio. Al tramonto le ombre tornano ad allungarsi spaccando di nuovo le dune in due parti e oltre la zona oscurata la sabbia prende il colore di una buccia d’arancia. Infilandosi nel deserto sotto la guida esperta dei rangers, improvvisamente, si apre davanti agli occhi lo spettacolo dantesco del pan di Deadvlei: chiusa tra alte pareti di porpora, la grande macchia bianca di sale riflette, accecante, la luce del sole. Dalle mille crepe esagonali del suolo, spaccato in una geometria impazzita, spuntano le sagome desolate di centinaia di alberi morti. Anime di carbone condannate a fare da eterno contrasto alla vivacità dei colori del Namib, in un silenzio talmente intenso da assumere le tonalità di un suono. Davanti al pan ci si ferma per ore pensando alla vita e al tempo, cercando una somiglianza per ogni pianta rinsecchita. Una ricorda un mostro preistorico, l’altra una pantera, una terza una fanciulla smagrita dalla fame. Altre ancora sono figure danzanti. Intanto il cielo si è fatto blu Cina e la via lattea lo macchia di bianco. Brividi di freddo corrono lungo la pelle: in questo angolo di mondo le escursioni termiche sono fortissime e in agosto si passa dai 30 gradi del pieno giorno a temperature radenti lo zero. Nei letti spartani ma eleganti del Kulala Desert Lodge si spande il piacevole calore delle boule rigonfie di acqua calda. Alle prime luci dell’alba a Sossusvlei si alza in cielo la mongolfiera della “Namib Sky balloon safaris” (www. nabibsky.com) e comincia un viaggio dolce in compagnia del deserto e del vento. Dall’alto spunta un paesaggio nuovo, inaspettato. Le dune sono circondate da una sterminata prateria coperta di erba rinsecchita e brulicante di orici, springboks, struzzi, otocioni e sciacalli. Dietro la brughiera catene di montagna rocciose di pietra fredda e disanimata viaggiano verso oriente. Verso ovest tutto è sabbia. E più ci si avvicina all’oceano più il rosso si fa rosa, il rosa si fa grigio, il grigio si fa bianco. Eric Hesemans, il pilota della mongolfiera, spiega che tutto dipende dall’età delle dune, le più antiche hanno colori intensi per effetto dell’ossidazione, le più giovani, saranno rosse solo tra alcuni milioni di anni. Al suono delle parole di questo essere del deserto, ultimo di una stirpe di coloni belgi insediati in Africa da secoli, con ottimi studi nelle università europee ma incapace di abbandonare il continente dove è nato l’uomo, lassù, sospesi tra il turchino del cielo e il rosso delle dune, vengono alle labbra i versi di William Blake: «vedere il mondo in un granello di sabbia / e il paradiso in un fiore selvaggio / tenere l’infinito nel palmo di una mano / e l’eternità in un’ora». Ci si sente a un passo dal segreto che regola la vita. La seconda tappa parte dall’air strip del Kulala Desert Lodge. L’aereo ad elica si alza leggero, sorvola il mare di dune e, ronzando lento, arriva al mare d’acqua. Chilometri e chilometri dove si vedono solo la sabbia che si confonde con la schiuma dell’oceano, alcuni campi per l’estrazione dei diamanti e le immense colonie di otarie dell’Atlantico. Mai un uomo. Una virata verso est, ancora qualche minuto di volo ed ecco la vette rocciose che circondano il “Damaraland Camp”, nella riserva di Torra. Un altro angolo di paradiso terrestre prosciugato. Le tende sono piazzate su una piattaforma di legno al culmine di un’altura. Dalla veranda si vedono il mare d’oro dell’erba seccata dal sole, poi, una prima catena di monti rossastri; dietro, più sfumata, una seconda catena di alture rese turchine dalla distanza. Ancora più lontano la sagoma bluastra del Brandeberg (2.606 metri), la montagna più alta della Nambia, che chiude lo sguardo a nuovi misteriosi deserti. Tra le pietraie del Damaraland corrono gli struzzi, pascolano gli orici, danzano gli springboks, rullano gli elefanti “desert adapted” e serpeggia come un rettile il “fiume profumato”, l’Huab River. Asciutto, certo. Arido, certo, ma verde per le grandi piante secolari che sprofondano le loro radici fino a pescare nelle vene d’acqua sotterranee. E’ da questi giganti smeraldo che esce l’aroma che colora l’aria di rosa, che rende il paesaggio vellutato. E’ un misto di forsizia e gelsomino che fa indimenticabile il pic-nic nel letto sabbioso. Abbandonato lo Huab, attraversato l’immenso altipiano, infilata una valle stretta e sassosa, abbandonate le Land Rover tra i cespugli, ci si trova davanti ai resti della foresta pietrificata, di nuovo a contare gli anni a milioni. Tronchi che sembrano di legno, tronchi che sembrano appena tagliati dai boscaioli e che invece hanno la consistenza della roccia: sono fossili di un’era lontana, quando l’uomo ancora non stava sulla terra. Una corsa di qualche chilometro sulle 4x4, una lunga camminata sotto un sole spietato che spinge il sudore lungo la schiena ed eccolo comparire, l’uomo: c’è lui, il nostro progenitore di alcuni millenni fa, dietro quelle giraffe, quegli struzzi, quei leoni graffiati sulle rocce rosse e piatte del Damaraland. Sono figure simili a quelle che si trovano sulle rocce nere dell’Acacus, nel Sahara, figure che sono lì per denunciare quanto sia antico il bisogno di segnare il rapido passaggio di un’esistenza sulla terra, per ricordare quanto sia antico il rapporto di stupore, di paura, di ammirazione tra l’uomo e gli animali. Terza tappa. Dall’airstrip di Damaraland il piccolo Cessna della Wilderness Safaris balza sul campo volo dello Skeleton Coast Camp. Qui si arriva solo dal cielo. Qui l’acqua vale come l’oro. Qui le giornate sono torride e umide e le notti fredde. Qui non si capisce se le dune sono quelle della spiaggia dell’Oceano Atlantico o quelle del deserto, perché non ci sono confini tracciati sulla sabbia e il colore è sempre lo stesso: bianco. Qui un attimo splende un sole accecante. Un attimo dopo cala una nebbia impenetrabile che bagna tutti i corpi e tutte le cose. Lo Skeleton Coast Park è tra le riserve più inospitali e disabitate - dagli uomini - del mondo, ma tra le più amate dalle bestie, che, pur di viverci, hanno adattato i loro corpi al deserto, alle pietraie, all’oceano. Qui si trova la iena bruna, che non vive in branco come le sue cugine maculate, ma se ne sta solitaria nel mezzo del nulla, cercando animali morti e cuccioli di foca. Qui pullulano gli sciacalli, i granchi, i cormorani. Qui, nell’entroterra, viveva Re Leonardo col suo branco e ancora vivono le versioni vocate alla sabbia di quasi tutti gli animali della savana. Ma qui, tra un relitto di nave e una carcassa di caterpillar, ultimo residuo di un giacimento diamantifero, regnano incontrastate le otarie. La sola colonia di Cape Frio ne ospita 13.000. Bisogna passarla una giornata tra sabbia e scogli a osservare quei pupazzi felici. Saltano tra le onde come delfini, giocano, prendono il sole pancia all’aria, pescano, si accoppiano. Ogni giorno sempre uguale, dall’alba al tramonto, per 25 anni, senza mai spostarsi dal loro sasso, senza conoscere migrazioni, con la sola preoccupazione di schivare i predatori di terra e di mare. Obbediscono alle leggi del ciclo della vita senza ribellione, con gioia. Quando il sole si tuffa dietro le onde, torni a casa sognando una nuova vita. Tra la brezza dell’oceano, il profumo di salmastro, succhiando il calore degli scogli e della sabbia, una sirena dietro le rocce. Senza smart phone e senza i-Pad. Ma i sogni svaniscono all’alba e la memoria li cancella in fretta. La quarta tappa del viaggio comincia dall’airstrip del Desert Rhino Camp. In Namibia si va per vedere i paesaggi e gli animali e se il Paese fosse un corpo, la concessione di Palmwag sarebbe il suo cuore. E la sua anima. I panorami più belli dell’Africa Australe sono qui, all’incrocio tra l’Uniab River e il fiume Achab, con le Etendeka Mountain cilestrine all’orizzonte. Tra mari di erba rinsecchita e cespugli di Euphorbia, sostenuta dalle poche pozze di acqua lasciate dal ritiro invernale dei fiumi, vive una fauna sorprendente, fatta di migliaia di zebre di Hartmann, giraffe, gazzelle d’acqua, springbok, struzzi, elefanti del deserto, leoni, ghepardi, iene, rettili di ogni tipo e, soprattutto, rinoceronti neri. Palmwag non è il tipico parco nazionale o la riserva privata sudafricana, dove gli animali si trovano lì a portata di mano, una corsa con la Land Rover e via per l’istantanea. Palmwag è un angolo di Africa autentica, un posto dove le bestie stanno ben nascoste, diffidano dell’uomo e per trovarle occorre fare dei veri safari, come si usava nella prima metà del secolo scorso, ma con la reflex al posto del fucile. Di notte, in tenda, il ruggito del leone fa accapponare la pelle, ma all’alba il re della savana scompare. Lo si cerca tra i massi di pietra, tra i letti dei fiumi, all’ombra delle poche acacie, ma non sempre la caccia riesce. Se la belva non si mostra, resta il piacere di avere navigato un panorama unico, di avere respirato profumi australi, di avere riempito gli occhi dell’azzurro del cielo. La grande esperienza offerta dalla concessione è il safari sulle tracce del rinoceronte. Si parte quando il sole è ancora dietro l’Etendeka, si mangia una crostata calda, si beve un caffè americano e poi si salta sulla Land, con la guida e due battitori. Alla prima impronta, alla prima cacca fumante, i tracker scendono dall’auto e cominciano a scorrazzare sull’altipiano. Quando la presenza dell’animale è probabile, anche il cacciatore con la reflex scende a terra e comincia a camminare. Intanto il sole è già alto e picchia duro. Il sudore scende lungo la schiena, impregna il petto. Passano i chilometri. Un gesto rivela la presenza della bestia. La guida studia il vento. Se l’odore d’uomo arriva a quelle narici finissime e l’animale è col suo piccolo, la carica è sicura. Da dietro un cespuglio, si può puntare l’800 su quella macchia grigia di fango. Nel mirino spunta il rinoceronte. Nel sangue si diffondono lo stupore, la paura, l’ammirazione. Gli stessi che stringevano le vene degli uomini che scolpirono i graffiti di Damaraland. Si riaccende la memoria genetica dell’uomo. Quella memoria che fa dell’Africa la nostra casa. Lasciata Palmwag, ci si ritrova a volare sopra l’infinità del tempo. Laggiù in fondo, tra distese di praterie bruciate dal sole e boschetti rinsecchiti, spuntano i resti di quello che 25 milioni di anni fa era l’immenso lago che bagnava l’Africa Australe e che oggi è il pan di Etosha. Una distesa bianca di sale che rimanda in cielo luci acide e taglienti. Impossibile immaginare vita in quella desolazione. Tra quelle foglie secche, su quelle colline disanimate. Eppure, quando l’aereo si abbassa, come per incanto, spuntano le sagome pesanti degli elefanti, le ombre lunghe delle giraffe, le zebre, le antilopi, le gazzelle. Si rivela la grande risorsa del parco dei documentari del National e della Bbc: le pozze. Piccoli e grandi invasi che custodiscono l’acqua della stagione delle piogge, di quando, da novembre a marzo, la Namibia non è un paradiso terrestre prosciugato, ma una tavolozza dove anche il verde e lo smeraldo fanno capolino con discrezione e timidezza. Le pozze di Etosha sono un’arca di Noè, su cui si affacciano tutti gli animali della savana. Basta stare seduti sulla Land Rover e guardare. Poco alla volta arriveranno, a branchi, tutte le bestie che hanno popolato i sogni della nostra infanzia. E le pozze di Etosha, come le pietraie del Damaraland, le dune di Sossusvlei, l’impasto di sabbia e spuma della Skeleton, le colline di Palmwag rubano brandelli del nostro cuore e della nostra anima. A casa fiorisce e cresce di giorno in giorno il desiderio di tornare nell’Arido Eden per ritrovare quanto di noi è rimasto laggiù. Lo chiamano mal d’Africa. Foto di Sergio Pitamitz (www.pitamitz.com) e testo di Luigi Alfieri. Da "Oasis". | Il viaggioI collegamenti tra Europa e Namibia sono assicurati dalla compagnia Air Namibia (www.airnamibia.com.na) rappresentata in Italia da Airconsult ([email protected] - telefono: 0654242541 - fax 06 54242534). Per visitare il luoghi più selvaggi del territorio Wilderness Safaris (www.wilderness-safaris.com) mette a disposizione una straordinaria rete di lodge e campi tendati collegati tra loro con un efficiente servizio aereo. I prodotti Wilderness sono commercializzati in Italia dal Tour operator “Il Diamante” (www.ildiamante.com), che offre sia pacchetti viaggio preconfezionati sia pacchetti ritagliati su misura del viaggiatore. Gli spostamenti sono previsti in aereo o con mezzi 4x4. A Sossusvlei si consiglia il sorvolo delle dune con il pallone aerostatico della Namib Sky Balloon Safaris (www.namibsky.com). Per qualsiasi informazione riguardante il paese si può consultare direttamente il sito dell’ufficio del turismo: www.namibiatourism.com.na Christiaan Bakkes |
7 Comments
Graziella
16/11/2012 11:04:16 pm
Bellissima, come in altri testi.....la bellezza commuove e pone domande. Desidero rileggerlo, e' vicino alla poesia!
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17/7/2013 05:33:27 pm
This write up about Namibia was really informative. The life in African countries like Namibia is in way little miserable due to poverty and these write ups are giving a clear picture of African life. Keep posting more about other African countries like Zimbabwe, Tanzania etc in future also.
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17/10/2013 04:28:13 pm
Blogs require little technical skills to operate and if you do have questions normally your hosting services will have the answers.
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19/10/2013 09:58:07 pm
Parlano di Re Leonardo e del suo branco. Erano sei leoni del deserto, gli ultimi sei, che vivevano tra le alture della Skeleton Coast.
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24/10/2013 09:00:46 pm
It has been two weeks since I got the partnership of your service essays. Because of the necessary revision of my article that was considered my fault, I was grateful that you still covered me with your free revision policy. You really did understood the life of a student. I will never forget this act of kindness.
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29/1/2015 12:22:11 pm
People are looking different in Namibia country. Article was quite interesting because the topic is about nature. Photography shows how good the country's nature was. I am eagerly waiting to see different countries nature like this.
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12/2/2015 07:51:13 am
Thanks for sharing such a wonderful information
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Luigi AlfieriGiornalista. Scrittore. Giramondo. Categories
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November 2013
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