Il primo novembre del 1501, Amerigo Vespucci e i suoi marinai, attraversato l'Atlantico, sbarcarono in un placido golfo ricco di spiagge bianche e battuto da un vento dolce. Un piccolo paradiso subito ribattezzato «Baìa de Todos los Santos». Quarantotto anni dopo, il re di Portogallo spedì sul posto 400 soldati, 400 coloni e un bel numero di preti e prostitute. Toccò a loro fondare sulle vette a picco sul mare la città di Salvador. Città nata portoghese, ma presto diventata africana. La più grande città africana fuori dal continente nero. Tanto africana che il suo più illustre figlio, il suo massimo cantore, il romanziere Jorge Amado, ne ha contestato il nome originario e l'ha ribattezzata Bahia. «I filologi e gli storiografi - ha scritto - perdono il loro tempo a dibattere se questo posto si chiami Salvador o San Salvador. Questa è la città di Bahia. Così la chiama il popolo della strada, così tutti la debbono chiamare». Ha ragione Jorge Amado: mai come in questo caso la città è la sua gente. Africana come il sangue che pulsa nelle vene di negri e mulatti che calpestano le sue strade. Allegra e angosciosa come i loro canti. Luminosa come i loro occhi. Colorata come i loro vestiti. Profumata come la loro pelle. Portoghese è l'assetto urbanistico, portoghesi sono i palazzi, portoghese è la lingua, tutto il resto è nero. In un braccio di ferro durato due secoli, la cultura e il sentimento della vita degli schiavi importati per coltivare la canna da zucchero, prima hanno resistito ai violenti tentativi di cancellazione, poi, piano piano, con l'astuzia e con la pazienza, si sono imposti sulla civiltà dei padroni. I fazendeiros lusitani proibivano ai lavoranti i riti animisti e l'ossequio alle loro divinità? I neri ribattezzavano gli dei angolani (orixà) coi nomi dei santi cattolici aggirando preti, bibbia e vangelo dopo avere finto di essersi piegati. Da questo misto cristiano-pagano è nato il «candoblé» un modo di interpretare la vita, l'anima, il soprannaturale che oggi è il cuore della spiritualità di Bahia, una città a cui non bastano centinaia di chiese per essere cattolica fino in fondo. Il «candoblé», con le sue madri e padri di santo, coi suoi babalao, con le musiche e le danze, con le maschere colorate, è dappertutto: diffonde magie nelle buie notti sulle spiagge, nei vicoli miserabili, nelle piazze. Viene ballato e cantato per i turisti in teatri e ristoranti. Spande incantesimi ovunque. Arriva dall'Africa anche la «capoeira» che appartiena al paesaggio di Bahia come le case coloniali gialle, rosse, indaco, arancio, verdi; come le chiese barocche e rococò, ricche di fregi d'oro, maioliche azzurre e santi inginocchiati; come le chilometriche spiagge di sabbia bianca e rosa che accerchiano la città, come le palme e il vento. La «capoeira» era un'arte marziale angolana. Gli schiavi, dopo massacranti giornate di lavoro, la praticavano senza sosta nelle notti rischiarate dalla luna. Spendevano volentieri le ultime stille di energia perché quella, e solo quella, sarebbe stata l'arma da usare contro i bianchi nel giorno della ribellione. Quando i piantatori portoghesi capirono la pericolosità di quelle «mosse» veloci e micidiali, di quelle piroette, di quelle contorsioni incontrollabili, proibirono ai servi anche l'ultimo sfogo. Ma i neri non si lasciarono piegare, trasformarono la capoeira in una danza, gli attacchi in veroniche virtuose, le parate in agili inchini. E ancora oggi in ogni angolo della città, dall'alba al tramonto, coppie di ballerini negri, mulatti e meticci mettono in scena improvvisati spettacoli di lotta, che, riportate alla luce le vecchie mosse marziali, possono trasformarsi, al minimo errore, in scontri mortali. Africano è anche il cuore della città, il coloratissimo «Pelourinho». Pelourinho è il posto in cui venivano puniti gli schiavi. E' qui che erano messi alla gogna e frustati. Qui ci sono ancora gli anelli per legarli al muro come animali. Qui aleggiano gli spiriti di quanti son stati crudelmente uccisi per una minima insubordinazione. Non c'è un altro posto al mondo in cui si avverta tanto intensamente l'umiliazione e la rivincita del popolo nero. Pelourinho era una piazza, è diventato un intero quartiere, il più colorato, il più luminoso. Il più bahiano e il più africano. Girare per le sue strade è come sfogliare un libro di Jorge Amado. Andare da qui alla Ladeira dos Alvos significa girovagare da un capitolo all'altro di «Dona Flor e i suoi due mariti». Chiese azzurre e gialle, pinnacoli barocchi, cesti di mango e maracuja, profumi di spezie e di moqueca, note di makulele e samba, i tamburi del candoblé: tutto è come nei romanzi del grande cantore della baia di Todos los Santos. Gli stessi odori, gli stessi sapori, le stesse luci, la stessa allegria e la stessa tristezza che escono dai libri. Tanto da pensare che siano nate prima le pagine dello scrittore che i palazzi dei colonnelli del cacao, il forte, l'oceano, le palme e le spiagge. Oxossi, Yemanja, Exù, Yansa e tutti gli orixà sono lì che si agitano come forsennati mimando l'eterna lotta tra il bene e il male, e non capisci più da dove arrivano. Dall'Africa, dal cielo, da un libro? Tutto quello che scrive Amado di Bahia è vero, e tutto quello che è vero a Bahia è nei libri di Amado. «Vede - ci racconta una signora di origini siriane che dirige un grande albergo lungo la costa di Sauipe - io Gabriella, quella che sapeva di garofano e cannella, l'ho conosciuta a Ilhéus. Era una mulatta già anziana e ancora bellissima, odorosa. Ho incontrato anche suo marito, Nacib. Tutti qui conosciamo Dona Flor, Norma Sampaio, Vadinho e il farmacista». Jorge dice sempre il vero. Allora ascoltiamolo. Ci invita con la sua voce di miele e di vaniglia: «Vieni, Bahia ti aspetta. E' una festa, ed è anche un funerale. Il cantore di serenate canta il suo richiamo. Gli Atabaques salutano Exù nel momento sacro del Padé. I peschereggi solcano il mare della baia di Tutti i Santi, al di là del Rio Paraguaçù. Dolce è la brezza sulle palme di cocco lungo le spiagge sconfinate. Un popolo meticcio, cordiale, civilizzato, povero e sensibile abita questo paesaggio di sogno... Vieni, Bahia ti aspetta». (Di Luigi Alfieri - da Gazzetta di Parma del 27 novembre 2002) | NOTIZIE UTILI Bahia (i filologi la chiamano Salvador) è una città di due milioni e mezzo di abitanti affacciata sulla costa atlantica nel Nord-est del Brasile. E' ricca di chiese, edifici coloniali e tradizioni culturali di sapore afro. Una visita accurata richiede 5 giorni. Di particolare interesse la cucina, gli spettacoli di capoeira e di candoblé. GUIDE Prima di affrontare un viaggio in questa città è consigliabile leggere il libro-guida «Bahia» di Jorge Amado (lo scrittore che ha passato tutta sua vita a cantare le bellezze del posto), Garzanti editore, che racconta tutte le magie e gli incantesimi che si nascondono dietro il visibile. Ancor meglio sarebbe leggere il romanzo «Dona Flor e i suoi due mariti» (stesso autore ed editore). IL VIAGGIO Il periodo migliore per visitare la città è l'inverno (in Sud America è estate). CLIMA e SOGGIORNI La bellezza delle spiagge, i prezzi bassissimi, le ottime strutture alberghiere consigliano di abbinare alla visita di Bahia un soggiorno marino di almeno una settimana. A Nord della città esistono due stupendi insediamenti turistici. Praia do forte Eco resort E' un villaggio creato nel massimo rispetto dellea natura - ricchissima - del luogo, sull'esempio dei lodge che si trovano nella savana africana. Sulle sue spiagge nidificano le tartarughe. Alle spalle si trova una meravigliosa foresta (mata atlantica) visitabile con guide indios. Per informazioni l'email è [email protected] il sito internet www.ecoresort.com.br. Leggermente più a Nord è il complesso di Costa do Sauipe, di cui fanno parte cinque alberghi a 5 stelle (Marriott, Renaissance, Breezes, e due Sofitel) e un gruppo di meravigliose Pousadas (locande) di extra lusso ispirate alla tradizione architettonica locale. Per informazioni è disponibile il sito Internet: www.costadosauipe.com.br Indirizzo e-mail: [email protected] Nel complesso (da lavoro a circa duemila dipendenti) è possibile praticare ogni tipo di sport. Dispone anche di un campo da golf a 18 buche. |
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Luigi AlfieriGiornalista. Scrittore. Giramondo. Categories
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November 2013
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