I cipressi pensosi di Aquileia sono i guardiani di una storia gloriosa.Di una città che c'era, ma non c'è più; che era la quarta più importante dell'impero romano: la capitale della «decima regio», Venetia et Histria. Il punto di partenza delle legioni destinate alla Pannonia, all'Illiria, alla Dacia, al Ponto lontano. Il porto più importante dell'alto Adriatico. Allo sciogliersi dell'impero, col diffondersi del cristianesimo, Aquileia è diventata un centro religioso di prim'ordine, sede del più importante Patriarcato dell'Italia settentrionale. Ora, di tanta gloria, restano gli scavi archeologici romani, un po' di marmi e colonne e la superba basilica dei santi Ermacora e Fortunato, un vanto della cristianità artistica. Tra gli uni e gli altri, le file dei cipressi che si allungano verso il cielo. Camminare lungo la «via sacra», che unisce il porto alla basilica, tra teorie di alberi appuntiti come spade, capitelli, marmi con iscrizioni latine, il cielo turchino, i monti della Carnia cinerini all'orizzonte, il salmastro dell'Adriatico nell'aria, è come sgranchirsi le gambe in un De Chirico degli anni buoni. Nella grande chiesa paleocristiana la sorpresa più bella: il pavimento è uno dei più ricchi mosaici romani conservati in occidente, secondo solo a quello della Villa del Casale a Piazza Armerina, Sicilia. Nell'impero agonizzante del quarto secolo dopo Cristo, i patrizi di Aquileia hanno voluto impresso nel suolo il «monumento» che avrebbe reso immortale la fama della città. Dall'alto dei ponti di cristallo sistemati nelle navate, si scorgono scene di pesca, la lotta tra il gallo e la tartaruga, il buon pastore col gregge mistico, le immagini delle quattro stagioni, i volti dei benefattori del tempio. Come la basilica è imponente e maestosa, così il tempietto longobardo di Cividale, a una manciata di chilometri di distanza, è piccolo e discreto. Eppure la capacità di commuovere, di stupire, di appagare gli occhi e la mente è altrettanto intensa. Se Aquileia era un bastione della romanità, Cividale è stata la capitale del primo ducato longobardo. I guerrieri di Gisulfo, scavalcate le Alpi, conclusero qui la loro prima corsa verso ovest. Mentre Aquileia scendeva, Cividale saliva. La sede del patriarcato venne trasportata all'ombra della corte longobarda. Sulle rive del Natisone, con in faccia le Alpi Carniche e le Giulie, i duchi posero la piccola chiesa che oggi l'Unesco ha dichiarato patrimonio dell'umanità. Ci è arrivata quasi intatta dai secoli. La volta a botte conserva dipinti bizantineggianti, le pareti sono decorate con stucchi candidi. Nessuno ha saputo usare questo materiale con la perizia dei longobardi, che ne hanno tratto fregi e bassorilievi stupefacenti (siamo nell'ottavo secolo dopo Cristo, un'epoca in cui molti credono che l'arte fosse morta) e in nessun posto se ne trovano di simili. Il bianco gelido delle figure dei santi racconta la fede dell'alto medioevo con una capacità figurativa sorprendente. Il tempo che ha condannato alla decadenza e alla rovina Aquileia, non ha risparmiato Cividale, scalzata nella scala del potere e della ricchezza da una «città nova». Nel 1248, il vescovo Bertoldo spostò la sede del patriarcato a Udine. Nel cuore della nuova capitale religiosa sorse il duomo romanico, purtroppo molto rimaneggiato nei secoli, affiancato da un battistero ottagonale con fonte esagonale, che oggi, collegato alla cappella di San Nicolò, regala ai visitatore emozioni uniche. Per esempio, un capolavoro della scultura gotica del lombardo-veneto: l'arca del beato Bertrando, sostenuta da sei figure di sante leggere come un fiocco di neve e il ciclo di affreschi di Vitale da Bologna, che gareggiano in freschezza coi capolavori che Cimabue ha sparso nel centro-Italia. Nel Quattrocento Udine è passata sotto il controllo della Repubblica di Venezia e la Serenissima ha lasciato il suo marchio nel cuore della città. Piazza della Libertà, con le sue architetture in stile gotico-orientale, coi suoi portici, gli archi e le sculture è un angolo di Laguna in terraferma. Un campo senza gondole, protetto dall'alto dalla mole imponente del castello, che se ne è stato appollaiato sul colle per secoli a vigilare sulla sicurezza di Udine e della Repubblica. Poi c'è Palmanova, la città fortezza voluta da Venezia nel 1593. Le sue mura selvagge, alte 18 metri e infestate dai rovi e dai cespugli, disegnano una stella con al centro una piazza-bomboniera che ingentilisce l'immagine di un presidio militare portentoso. Come un garofano nell'asola di un'armatura. Una grande ellisse segnata da colonne e statue secentesche e al centro la sagoma gentile del duomo. Con un viaggetto di cento chilometri attraverso quattro città si ripassano duemila anni di storia. La storia di una terra di confine, trampolino di lancio per le conquiste dei popoli italici, punto d'arrivo per i conquistatori stranieri. Si lascia questo angolo di Friuli con nelle orecchie il fragore delle armature dei soldati delle legioni romane in marcia verso il Danubio, l'armonia dei canti gregoriani che salgono verso il cielo, le urla di conquista dei longobardi che scendono verso la città eterna, il vociare dei mercanti veneziani sotto il porticato di San Giovanni a Udine. E' il suono di una fetta d'Italia, una delle tante fette di Italia che tutto il mondo invidia. Uno dei cento e più luoghi che fanno del nostro Paese il più bello al mondo. (di Luigi Alfieri - da Gazzetta di Parma del 12 ottobre 2011) | Da non perdere: i capolavori di GradoImmagini dal Friuli In alto l'esterno della basilica di Aquileia che contiene straordinari mosaici romani. I gessi longobardi del tempietto di Cividale. Un affresco nel duomo di Udine. Il cielo sopra Grado e una scultura nella piazza della Libertà di Udine. Visitando Aquileia, non si può fare a meno di entrare nella confinante isola di Grado per ammirare le basiliche di Sant'Eufemia |
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C'è un posto nel mondo dove l'imam, il prete ortodosso e il rabbino, si incontrano e dialogano; dove le grandi religioni monoteiste, islam, cristianesimo e ebraismo, si incrociano senza generare conflitti. Questo posto è la il Tatarstan, la Terra dei tartari, e si trova nel cuore della Russia più profonda, adagiato lungo le sponde della «grande madre Volga», il fiume dei fiumi.
I tartari, guerrieri mongoli sulle cui spade Gengis Khan ha costruito il proprio impero, sono arrivati qui nel tredicesimo secolo, hanno importato la religione di Maometto e hanno fondato un grande stato, l'«Orda d'oro», che in pochi anni si è frantumato in cento briciole. La città simbolo dell'«Orda d'oro» è la mitica Kazan, che nel 2005 festeggerà i mille anni di vita. Per molto tempo, Kazan è stata la bella addormentata sul Volga, ma ora, in occasione del grande giubileo, vuole rivelarsi al mondo in tutta la sua bellezza, che è quella tipica di tutte le città di frontiera, dei centri che hanno saputo essere crocevia di razze e di storia. Multietnica, colta, elegante, un vero crogiolo di stili achitettonici e di tendenze artistiche. E, soprattutto, un faro per chi vuole fare della tolleranza religiosa un punto di approdo. E' un risultato, quello della convivenza tra le fedi, conquistato attraverso il sangue e il dolore, un risultato imposto dalle dure lezioni della storia, che hanno dimostrato come le violenze e i soprusi non pagano i popoli. E di violenze e soprusi Kazan, nella sua vita millenaria, ne ha vissute di tremendi. A cominciare da quando Ivan il Terribile, lungo il percorso di trasformazione del granducato di Mosca in impero russo, iniziò la conquista dei territori Tartari. Nel 1552, dopo un lungo assedio, la musulmana Kazan cadde nelle mani delle truppe cristiane di Mosca. Il sangue corse a fiumi, la maggior parte della popolazione fu sterminata: l'etnia tartara si salvò perché Ivan, per conquistare la città, si servì di migliaia di guerrieri rinnegati di discendenza mongola. Per secoli musulmani e ortodossi si scontrarono senza risparmio di violenze di ogni genere, fino a che lungo il Volga arrivò la grande livella: il comunismo. A partire dal 1929, moschee, chiese, conventi e sinagoghe furono chiuse e trasformate in magazzini, circoli ricreativi, stalle. La pratica religiosa proibita, i sacerdoti di tutte le fedi perseguitati: regnava l'ordine di Josif Visarionovic Dzugasvili, in arte Stalin. Una forma di ordine che non prevedeva né fede né pietà.
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Luigi AlfieriGiornalista. Scrittore. Giramondo. Categories
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November 2013
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